Storia della Villa
Incerte sono le origini e le notizie di questa costruzione così singolare, l’ipotesi più plausibile e veritiera è riconducibile ad un edificio d’ausilio all’antica fornace medievale di Ripatransone, e per la sua datazione si ha ragione di credere che possa essere di quel periodo, in quanto costruita secondo l’architettura di quel tempo e con mattoni fatti a mano di differente formato e omogeneita’ fra i piani, a evidenziare la necessità di una maggiore resistenza nel piano terra soggetto al peso di tutta la struttura.
Infatti, durante i lavori di restauro della villa, sono riemersi i resti di quella fornace che nell’atto notarile di compravendita del 1768 veniva definita “diruta”. Essa consisteva in un buco nel terreno che riempito di legna e di laterizi da cuocere disposti a forma tronco piramidale su muriccioli di mattoni già cotti, veniva ricoperto di argilla e dopo alcuni giorni di cottura, il tutto veniva smantellato per poi ricominciare di nuovo.
Posta vicino alla città, presentava tutti gli elementi necessari al suo funzionamento, disponibilità di legna, d’acqua prelevata dalla vicina sorgente, di terra argillosa e di sabbia probabilmente scavata per secoli nelle vicine grotte dette di Santità. Ma sul finire del XII sec., al tempo di Manerio signore di Ripatransone, la città fu distrutta per opera di Marcovaldo di Annweiler, siniscalco del Sacro Romano Impero, duca di Ravenna, conte d’Abruzzo, reggente del regno di Sicilia e margravio di Ancona. Infatti dopo che Marcovaldo fu espulso dalla Sicilia per volontà dell’imperatrice Costanza rimasta vedova di Enrico VI (1197), suo protettore, fece ritorno nella marca di Ancona a lui soggetta e ricominciò a conquistare le città che si erano sottratte al suo dominio. Ripatransone fu così assediata e distrutta. Marcovaldo, in seguito alla morte dell’imperatrice (1198), fece ritorno in Sicilia dove morì nel 1202. Intanto Ripatransone si eresse a libero comune, riconosciuto nel 1205, ma nel frattempo le nuove autorità comunali decisero il potenziamento dell’antica fornace per riedificare in tempi brevi le mura e le case distrutte.
Il potenziamento allora riguardò sia l’ampliamento del forno che la costruzione di una casa torre secondo gli usi di quel tempo, per far alloggiare le maestranze ed evitare il loro giornaliero ritorno all’interno del borgo, in quanto si dedicavano anche alla coltivazione della terra nel contado per il loro sostentamento. Le fattezze della torre, rispecchiano quelle che nel libro Guide al Piceno, dell’editore Maroni, vengono descritte con estrema accuratezza.
Esternamente presenta un’architettura più antica, internamente ne segue la descrizione con uno sviluppo verticale su tre piani di un solo vano, il cui piano terra con volta a botte e porta d’ingresso era adibito a stalla per animali da cortile.
Il locale al p1 adibito ad alloggio era dotato di finestra e porta d’accesso, che rialzata e rivolta verso la città ne favoriva la fuga in caso di pericolo.
Questo locale era poi diviso da un soppalco in legno dal tetto, cosi da formare un magazzino o un altro alloggio raggiungibile con una scala interna in legno.
Quasi subito però le autorità comunali si accorsero che per aumentare la produzione era anche necessario costruire un edificio per fabbricare e mettere ad essiccare i mattoni prima della cottura in quanto non poteva più avvenire all’aria aperta sotto cannicciati provvisori, perché sole, acqua e vento li avrebbero rovinati.
Questo edificio a due piani fu realizzato addossato alla torre ma su un livello piu basso seguendo l’andamento del terreno.
Il piano terra costituito da due locali furono realizzati lo stesso con volte a botte di fattura romanica in mattoni a vista, ognuno con una porta d’accesso, essi non avevano finestre, ma piccole feritoie (ancora presenti), tipo quelle dei castelli, che però servivano da aereazione per i mattoni posti ad essiccare, come la piccola e suggestiva apertura ad arco fra i due locali oggi chiusa ma ancora visibile.
Nel piano primo altri due locali con funzione di ulteriore alloggio, erano comunicanti fra loro e con la torre, cosi da sfruttare il suo ingresso per tutto il piano primo, mentre il tetto era a due spioventi con travi in legno, pianelle e coppi come quello della torre.
Successivamente per maggiore comodità, vennero chiuse (ma ancora visibili) la porta e la finestra di accesso al p1 tramite la torre e fu realizzata una scala perpendicolare sul lato ovest del locale nord per accedere agli alloggi del p1 direttamente dal cortile della fornace.
Quindi questo edificio cosi originale e unico, primo esempio di casa-torre-fabbrica, immerso in un rigoglioso bosco che ne celava la vista e di cui ne rimane traccia nella parte bassa del crinale, è l’attuale corpo principale della Villa il Canonico, che grazie anche alla tecnica costruttiva e ai materiali usati allora, è arrivata pressoché intatta fino a noi per regalarci ancora quelle suggestioni e tutto il fascino di un edificio di 800 anni fa.
Le prime notizie scritte al momento reperite sulla fornace, nel suo complesso, risalgono al 1608 in un catasto del quartiere di s Domenico di Ripatransone dove Domenico di Brandimarte Iezzi possiede pezzo di terra confinante con la fornace di mattoni e con le Carbonare della città.
Nel 1710 il beneficio di sant’Appollonia possiede pezzo di terra in c.da della fornace vicino alla porta di Capo di Monte.
Nel 1730 la comunità possiede intorno alla città terra chiamata le Carbonare appena fuori le mura castellane e successivamente nelle memorie del Marchese Bruti Liberati le Carbonare sono individuate tra le due porte di Agello e Capo di Monte. Nel 1748 il pezzo di terra del beneficio di sant’Appollonia viene collocato in c.da Pintura e scompare la c.da della fornace.
Infatti nei primi del 1700 si affermano le fornaci private e quella storica forse per mancanza di alcuni materiali fu abbandonata.
Queste nuove fornaci portarono con loro degli strascichi, come nel 1793 quando si accusò il parroco di s.Angelo, don Vitale Bassotti, perché per il restauro della chiesa avrebbe acquistato mattoni di pessima qualità e dal prezzo esorbitante dalla fornace del fratello.
Nel 1768, quindi, con la fornace ormai “diruta”, prende valore l’edifico medievale (definito “casetta”) che diventa oggetto di compravendita tra il canonico Nicola Neroni e il proprietario Giovanni Veccia, che decise di vendergli tutta la proprietà insieme a un terreno vignato, già dato in pegno per un prestito ricevuto, in quanto aveva bisogno di altri soldi, come risulta dall’atto notarile dell’11/11/1768.
La famiglia Veccia probabilmente gestiva la fornace e le attività connesse da diverso tempo, Luigi, infatti, mastro muratore, stipula nel 1700 un contratto con la comunità per il rifacimento delle mura pubbliche. Felice “co frutti de quali dopo più anni accumulati” istituisce nel 1600 il monte di s.Monica.
Comunque il canonico Nicola, figlio di Felice giureconsulto impiegato in Campidoglio a Roma, all’inizio tenne la “casetta” come dimora estiva di campagna e sembra che nei locali voltati del piano terra, che ricordano le chiese romaniche a tre navate rivolte ad est, vi celebrasse alcuni sacri riti, poi diventato arcidiacono della cattedrale col passare degli anni vi insediò una famiglia colonica. Cosa che troviamo sul finire del 1700, dopo la sua morte e con la tenuta passata allo zio, il conte Pietro Paolo Neroni.
Per 600 anni l’edificio quindi rimase com’era e venne riportato sulla carta della città di Ripatransone datata 1814 fino a quando con l’aumento demografico e la maggiore importanza dei buoi da lavoro per la terra, i Neroni pensarono ad un ampliamento generale della struttura.
Al piano terra costruirono a tale scopo la stalla con un locale voltato a crociera unito alla volta a botte del primo locale lato nord demolendo sia la scala che il muro perimetrale e creando la porta d’accesso ad arco (quella attuale), inoltre fu sopraelevato ricavando un’altra camera con la posa di una capriata per sorreggere il tetto.
La scala d’accesso al p1 fu ricostruita sempre perpendicolarmente sul lato ovest della torre con apertura ad arco e predisposero delle riprese su di essa (ancora visibili) per la costruzione di tutto un 2p secondo le necessità della composizione della famiglia colonica.
Ma con l’arrivo dei piemontesi i proprietari terrieri capirono la maggiore convenienza delle pratiche agricole in terreni meno disagiati e ricchi di acqua, a tale scopo sul finire del 1800 si iniziarono a costruire case coloniche più grandi in grado di assolvere alle molteplici necessità produttive del mondo agricolo.
Quindi il progetto di ampliamento-sopraelevazione totale fu abbandonato, la tenuta cambiò proprietario agli inizi del XX sec e in seguito, causa la fatiscenza della scala d’accesso, essa fu demolita e ricostruita con arrivo sul lato dx (ora sulla sx) di un terrazzino di nuova costruzione, dove nell’angolo veniva posto il forno (ora demolito) come ce lo conferma il colono che vi ha dimorato negli anni ‘50.
Per una migliore utilizzazione dei locali al p1, l’apertura d’accesso ad arco sulla torre, fu chiusa (ma ancora visibile) e fu ricreata una nuova porta (quella attuale) nel locale centrale.
Inoltre al piano terra dell’edificio, sul lato ovest, veniva creato una specie di marciapiede con la posa di pietre reperite nel terreno e sotto una di queste venne lasciata in bella vista una moneta del 1942 a data dell’esecuzione di questi lavori.
Gli attuali proprietari hanno iniziato il recupero dell’edificio nel 2011, dopo averlo acquistato nel 2002 e aver letto la copia notarile dell’atto di provenienza dell’immobile in cui esso veniva definito di “antica costruzione”.
Infatti dopo anni di ricerche nei vari archivi è nato questo piccolo compendio storico su un edificio unico e la volontà di tramandarlo architettonicamente ancora per secoli alle nuove generazioni.